Nero Finelli
Nel 1946, sul set di The big sleep – uno dei film destinati a fare scuola nel panorama noir degli anni Quaranta – il regista Howard Hawks fu costretto a interrompere le riprese per un episodio singolare ed emblematico. Durante i lavori nessuno riusciva a “chiudere” la sceneggiatura. Nessuno capiva chi avesse ucciso l'autista degli Sternwood (o se si fosse trattato di un suicidio); venne chiesto un chiarimento a Leigh Brackett, una delle sceneggiatrici. Ma la stessa non aveva alcuna idea della soluzione della storia. Fu inviato persino un telegramma a Raymond Chandler, autore del romanzo omonimo del 1939, da cui aveva preso piede l’adattamento cinematografico. Niente da fare. Lo scrittore rispose che purtroppo non ne era a conoscenza.
C’è chi dice che non esista un vero e proprio “genere” noir, bensì piuttosto un’atmosfera, magari un complesso di situazioni. Quello che colora di un nero impenetrabile le storie di molta cinematografia americana tra gli anni Quaranta e Cinquanta è, difatti, una grammatica visuale, fatta di alienazione, ossessione e onirismo. Termini e condizioni da cui scaturisce anche l’indagine pittorica di Pietro Finelli e del progetto Noir time.
Il cinema diventa per Finelli un filtro visivo deformante e immersivo, un dispositivo spettatoriale in grado di sovrascrivere la visione al vedere, portando chi osserva, immediatamente, già dopo pochissimi frame, al centro della storia, ancor prima di averne consapevolezza. A decidere del genere – siamo in un giallo? siamo in un noir? siamo in una commedia? – non sono dunque gli accadimenti ma il loro “colore”, la proprietà estetica e iconica delle vicende narrativizzate. Qui sta la grande distanza dalla letteratura e dai suoi tempi lineari e climatici. Del cinema Finelli trattiene proprio le zone atmosferiche, quelle capaci di ridefinire la pelle della sua pittura, quando essa stessa diventa ambiente e scena.
Noir time rappresenta difatti un luogo della pittura, la sua stessa estroflessione enunciativa, incorporando i tratti essenziali dello spettacolo cinematografico noir. Agibile e attraversabile, lo spazio espositivo funziona come restituzione dell’illusione filmica, senza l’espediente limitativo della citazione ma con l’accesso diretto all’immaginazione, al fantastico. La pittura è composta della stessa materia di cui sono fatti gli incubi, i misteri e il non-detto / non-visto di una storia. Così Finelli raggiunge e afferra le sperimentazioni visive tipiche delle produzione noir, quali l’uso delle ombre e del chiaroscuro (The Spiral Staircase, 1946), la subjective camera (Lady in the Lake, 1947), le inquadrature inusuali, spesso oblique (Stranger on the Third Floor, 1940) o estreme e spiazzanti (He walked by night, 1948) come anche la ricerca di vertiginose profondità di campo (He ran all the way, 1951).
Complice di una cinematografia appassionata delle sensazioni di squilibrio e tensione, Finelli posiziona l’osservatore nel mezzo degli attraversamenti – fisici e psichici – in cui l’immagine diviene una trappola cieca, una strada senza via di fuga. Come nella celebre scena di Vertigo (1958) di Alfred Hitchcock, in cui Madeleine Elster è ripresa di spalle seduta che guarda il ritratto al museo, lo spettatore giunge alle spalle della donna-performer: chi guarda non è più in attesa di un accadimento bensì sperimenta il tempo di una presenza –sebbene negata, riflessa, di spalle, anonima e indifferente. La realtà virtuale non c’entra nulla: qui l’illusione è scalzata e quello che resta è… la realtà.
Se c’è una differenza tra il noir degli anni Quaranta e quello ancora vitale e rintracciabile nella contemporaneità, sta proprio in questo radicale scarto tra irreale e reale. O, per meglio dire, tra osceno e scena.
Il lato oscuro delle storie e dei personaggi, un tempo affidati all’espediente estetico delle parzialità visibili, dei volti in ombra, degli spazi angusti e vertiginosi, trova nuovi codici e sviluppi nel cinema dei vari Coppola, Altman, Polanski, Scorsese o Lynch. Il nuovo enigma non sta più nel velamento di un volto, nella sua umbratile negazione, bensì nello svelamento, nella piena nitidezza. Lo spiega bene Slavoj Žižek in Lynch e il ridicolo sublime: “la rivelazione di sé, la trasparenza totale, la consapevolezza che dietro non vi è alcun contenuto nascosto, possono rendere il soggetto ancor più enigmatico; a volte, essere assolutamente espliciti è la maniera più efficace e astuta per ingannare gli altri. Per questo nel nero-noir la femme fatale continua a esercitare il suo potere di seduzione irresistibile sul povero partner: la sua strategia sta nell’ingannarlo dicendogli apertamente la verità”.
Questo essere-nel-mezzo con cui l’espediente installativo di Finelli produce inconsueti effetti di realtà, appartiene dunque ad uno spiazzamento molto diverso dal cinema di cui l’artista si fa interprete. Egli lavora alla messa in scena diretta dell’osceno, del fuori scena, dell’appena sussurrabile e indicibile. La matrice espressionista e freudiana del primo cinema noir, concepito in un’America post crisi ’29 e in pieno clima proibizionista, si riabilita nella pittura solarizzata e nella proposta ambientale, in cui all’oppressione e all’inquietudine fa spazio una nuova libertà di esplorazione e di esperienza.
Ecco che la condizione di partenza – il noir come fonte, come modello di visione – viene improvvisamente svelato, depotenziato, occupato fisicamente e transitato. L’operazione transrealista di Finelli non sembra negare il debito con il surrealismo bretoniano il cui procedimento artistico implicava “una rivoluzione totale dell’oggetto: l’azione di sviarlo dal suo fine, di prenderlo in considerazione proprio a causa del dubbio che può sorgere dalla sua destinazione anteriore”. Ma questa rivoluzione affidata alla pittura e al cinema giunge con Noir time alla esposizione del principio stesso, del dispositivo, della macchina finzionale.
Costruire ossessioni, o “colonizzare l’inconscio” come direbbe Wim Wenders, significa assediare il pensiero, deviare dalla logica per accedere al fantasma: così funziona il cinema, così si entra in un sogno. E in questa ossessione l’artista può abilmente condurci, come fa Pietro Finelli con questa originalissima invenzione. Fino al punto di perdere i riferimenti, disintegrando la scrittura narrativa del film a favore della moltiplicazione acusmatica di suoni e immagini, sparsi nello spazio del museo di Chisinau. Una totalità immersiva e seducente dove non è dato sapere come andrà a finire, dove sono nascoste tutte le verità. Proprio come sul set di The big sleep. Mentre la storia avanza e noi stiamo nel suo centro.
Roberto Lacarbonara